Non c'era rimasto nessuno a protestare.

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento perchè rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei ...e stetti zitto perchè mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perchè non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me e non c’era rimasto nessuno a protestare. (Bertolt Brecht)

venerdì 12 novembre 2010

Incontro con Azuz.

Prima di diventare pastore, e prima ancora di giungere in Sardegna dall’Africa, Azuz era stato uno spietato mercenario al servizio di re, imperatori e governi fantoccio insediati dalle potenze europee ed americane. Aveva combattuto nelle guerre per i giacimenti di diamanti, era stato assoldato da società petrolifere per soffocare le rivolte nella Nigeria settentrionale, aveva combattuto anche per i ribelli talebani, durante i cruenti scontri della Somalia… Queste circostanze, tuttavia, non devono provocare la vostra indignazione, perché Azuz più che carnefice è stato vittima, anche se può sembrarvi quantomeno strano. Quando aveva soltanto cinque anni il suo villaggio fu raso al suolo dal capitano Mukaba, spietato soldato di ventura al servizio delle multinazionali occidentali. I membri della sua famiglia furono sterminati e Mukaba lo prese con sé non per compassione, ma con l’infame intento di farlo diventare un guerrigliero feroce, una macchina da guerra pronto ad eseguire ogni suo ordine. Azuz fu prima duramente addestrato e poi mandato a combattere: sul campo di battaglia si macchiò di numerosi delitti efferati, come gli avevano insegnato i suoi cattivi maestri. Dopo anni di stermini, saccheggi, violenze e distruzione la sua mente cominciò a vacillare, voci convulse e frenetiche avvelenavano la sua coscienza, urla che pretendevano insistentemente vendetta per le vittime che lui stesso aveva causato. Azuz voleva liberarsi di quei demoni che gli rendevano la vita insopportabile, per questo raggiunse il villaggio di Araàs, dove viveva uno stregone celebre in tutta la regione per i suoi esorcismi. Le parole dello sciamano furono lapidarie, e senza possibilità di replica. Se desiderava liberarsi dalle voci, Azuz doveva eseguire il loro comando: ammazzare il capitano Mukaba.

Durante una notte calda ed umida, in cui non soffiava il vento e gli uccelli notturni attendevano in un surreale silenzio, Azuz s’alzò dal suo letto per dirigersi silenziosamente verso la capanna del capitano. Tra le mani stringeva un affilato macete, lo stesso che aveva più volte utilizzato per ferire, decapitare, mutilare. La parte inferiore della lama era illuminata dai confortanti raggi della luna, il passo di Azuz era rapido e deciso mentre gli spiriti gli ordinavano ripetutamente di sbrigarsi. Una volta giunto dinanzi alla tenda recise con cura il tessuto, quindi oltrepassò lo squarcio e s’avventò deciso sul corpo del capitano. In seguito ad una breve lotta gli mozzò la testa con un secco fendente, e questa rotolò sul pavimento come una zucca caduta dalle mani di un bambino. Le voci istantaneamente si placarono, i demoni abbandonarono la sua anima mentre la morte stendeva il mantello nero sulla salma straziata del capitano. Azuz s’alzò dal corpo esanime e respirò profondamente. Finalmente era libero… Soltanto allora il silenzio che dominava la notte lo sorprese per la sua profondità. Decise d’andarsene portando con sé alcune armi del comandante, ma mentre stava per oltrepassare l’apertura vide due diamanti risplendere nell’oscurità. Due diamanti che ardevano come il fuoco, due diamanti che avevano i lineamenti d’occhi impauriti, ma pur sempre carichi d’odio estremo. Quella notte Mukaba non era stato solo, poiché una donna della tribù Kavaswy aveva riposato al suo fianco. “La donna di un carnefice deve essere uccisa!” Pensò il ragazzo, una risoluzione chiara come le limpide acque del fiume al mattino. Azuz avanzò di un passo, con la mano sinistra le afferrò i capelli ed alzò il macete con la destra, pronto a tranciarle la testa, pronto a regalarle l’identico destino del suo sanguinario amante. Una sensazione opprimente tuttavia lo colse, un’intuizione dell’anima che s’insinuò in ogni specifico atomo del suo organismo. Azuz era fatalmente stanco del sangue, troppi occhi s’erano spenti per sempre dinanzi ai suoi. Lasciò andare la presa, per l’ultima volta affondò il suo sguardo in quelli della donna tremante, quindi fece cadere il macete ancora macchiato dal sangue caldo. Attraversò rapidamente lo squarcio della tenda, per essere nuovamente inghiottito dalla medesima oscurità che l’aveva partorito. Mentre affondava nel fango udì le urla della donna lacerare la notte, vide il bagliore dei fari perforare il buio ed ombre correre verso la tenda del capitano. Poi udì degli spari, ancora altre urla, cani rabbiosi che abbaiavano, uomini agitarsi forsennatamente. Tutto ciò non lo preoccupava affatto, perché si trovava già all’interno della palude, dove nessuno poteva catturarlo, dove nessun segugio poteva fiutarne l’odore.
Azuz sapeva che doveva fuggire, perché se gli uomini di Mukaba l’avessero preso prima l’avrebbero torturato, e soltanto dopo inauditi tormenti gli avrebbero concesso la morte. Non sapeva esattamente dove scappare, non aveva portato nulla con sé, e durante quella notte molteplici possibilità si presentavano nella sua mente. Questo scorrere d’immagini proseguì sino a quando non vide, la mattina successiva, un’immensa fila di persone che camminavano silenziosamente verso una destinazione ignota. Azuz s’avvicinò, e grazie ad un congolese scoprì che quella malinconica processione era diretta verso il porto di Adith, dove una nave attendeva di salpare alla volta dell’Europa. Il mercenario non sapeva nemmeno dove fosse collocata quest’Europa, talvolta aveva eseguito delle stragi per tedeschi, italiani o francesi, tutti europei, ma mai s’era domandato dove si trovasse questa dannata Europa. Per dire la verità, Azuz non sapeva nemmeno dove si trovasse l’Africa, ma saperlo non sarebbe servito a salvargli la vita. Ciò che contava era scappare il più presto e lontano possibile, ed il miglior modo per farlo era quello d’unirsi a quel compatto cordone umano, a quella surreale processione di sventurati nata in nome della speranza. Senza porsi ulteriori domande si unì perciò alla carovana, e dopo aver percorso centinaia di chilometri arrivò stremato dinanzi alle tiepide acque del Mediterraneo. Soltanto al porto seppe che per imbarcarsi occorreva molto denaro, ma per uno come lui questo non poteva essere un problema. Ad Adith si sarebbe procurato facilmente il necessario; si trattava di un porto affollato e non avrebbe avuto difficoltà ad avere ragione su qualche distratto turista europeo, incautamente incappato in uno degli stretti e bui vicoli del rione portuario. Avrebbe forse ottenuto il necessario senza uccidere nessuno, ma l’avrebbe certamente fatto, se questo era il prezzo della sua libertà. Azuz, tuttavia, non sapeva qual era l’effettivo valore della libertà, sino a quando non vide la nave che l’avrebbe trasportato nei “sicuri” porti europei. Si trattava di un rottame scassato ed arrugginito, che pareva adatto soltanto ad adagiarsi sui morbidi fondali marini. Traboccava di persone in ogni sua parte, qualcuno stava aggrappato alle balaustre, mentre altri disperati continuavano a salire come anime pronte a varcare la soglia dell’Inferno. Non c’era spazio nemmeno per respirare, ed il sole picchiava prepotentemente sulle teste di uomini, donne e bambini, tanto educati alla sofferenza che neppure immaginavano di lasciarsi andare ad alcun pianto infantile.
I barili dell’acqua potabile furono esauriti ancor prima d’abbandonare il porto, ma quando tutto pareva perduto un Dio annoiato concesse un’inaspettata pioggia per riempire le provviste. Alla pioggia tuttavia seguì presto la tempesta, in cui le onde grandiose avanzavano come mura in cemento armato adatte a flagellare quello scherno d’imbarcazione, marcia come il cadavere di un soldato abbandonato nel fossato di una trincea in disuso. Durante la bufera diverse persone furono inghiottite dal mare, molti persero la vita dopo essere stati flagellati sulle balaustre scricchiolanti della nave, altri ancora morirono mentre cercavano di salvare i loro bambini o le loro mogli. La bagnarola tuttavia non affondò e rimase miracolosamente a galla, ciondolante come un gigantesco tappo di sughero. I superstiti versarono lacrime amare per i loro cari, consapevoli d’essere stati risparmiati ma privi d’ogni proposito di gioire. Azuz aveva avvertito la morte molto vicina ma non soffriva, perché nel campo di battaglia era stato abituato a fare i conti col pericolo, e grazie alla follia assassina di Mukaba aveva perso tutte le persone per cui valesse la pena di piangere. Quando vide un bambino che l’osservava tra le braccia della madre morta, tuttavia, un’emozione aggressiva gli straziò il cuore, una sensazione a cui era ormai disabituato, ma che subito allontanò con la sua consueta durezza. Mentre la Guardia di Finanza li scortava nel porto di Lampedusa, cercò quello stesso bambino tra i naufraghi ma non lo vide. Era probabilmente morto per via degli stenti, o forse era riuscito a sopravvivere, preparato ad affrontare la sua odissea come l’ex mercenario era pronto ad affrontare la sua.
Dopo alcuni giorni di brutale prigionia Azuz riuscì a fuggire dal CPT, che non pareva certamente un luogo di prima accoglienza per gli immigrati ma piuttosto un ristretto campo di concentramento marziale. Per alcuni anni visse in Campania, sfruttato nelle immense campagne meridionali insieme ad africani, rumeni e slavi. Lavorò anche in una fabbrica sotterranea, i cui padroni erano cinesi al soldo della camorra, che gli imponevano orari e ritmi di lavoro massacranti. Dopo qualche mese fu ghettizzato in un seminterrato nei quartieri spagnoli di Napoli, poi costretto nuovamente a fuggire perché implicato in una faida tra bande per il controllo del mercato della prostituzione. Azuz era un esperto di armi, eredità della sua precedente professione di guerrigliero, e la sua abilità fu acutamente notata dalla famiglia Esposito, che l’assoldò per un lavoro semplice e meno faticoso: quello del killer. Azuz aveva giurato a sé stesso che non avrebbe mai più ucciso degli innocenti, ma i camorristi sono colpevoli a prescindere, e pur non essendo del luogo comprese immediatamente qual era la bieca attività di un camorrista: ricattare, sfruttare, utilizzare la prepotenza verso chi non è in grado di difendersi. Ammazzarne qualcuno sarebbe stato un piacere, non importava se doveva farlo per altri camorristi altrettanto criminali… La famiglia Esposito, ad ogni buon conto, fu quasi sterminata dalla famiglia Branca, ed Azuz dovette andarsene anche da Napoli, per sfuggire alla vendetta dei nuovi padroni dei quartieri spagnoli.
Nel suo pellegrinare il giovane africano incontrò un’Italia assai diversa da quella immaginata, un’Italia egoista, che non aveva alcuna intenzione d’accoglierlo ed avrebbe di certo preferito vederlo annegare nelle fredde acque del Tirreno. Una Nazione dove risorgeva un anacronistico razzismo, dove la paura per il diverso era alimentata da una propaganda politica bugiarda ed ipocrita. Le persone l’osservavano abitualmente con sospetto, nessuno azzardava un gesto d’aiuto, talora fu persino aggredito, come avvenne nell’affollata stazione ferroviaria di Firenze. Alcuni ragazzi dalle teste rasate volevano divertirsi a sue spese, ma le cose andarono assai diversamente rispetto a quanto avevano desiderato. Quando era stato mercenario per Mukaba, Azuz aveva imparato ad uccidere e mutilare, per la famiglia Esposito aveva invece imparato a gambizzare, e gli stivali lustri di quei giovanotti furono presto macchiati del loro stesso sangue. Azuz aveva compreso che i buoni propositi hanno un giusto valore, ma gli uomini spesso non ti consentono di realizzarli, sopratutto quando la tua pelle è nera, e devi fare i conti con dei fascisti esaltati e per giunta ubriachi.
Passando attraverso grottesche peripezie come questa, Azuz realizzò che non poteva separarsi dal suo revolver, l’unico familiare di cui poteva vantarsi e fidarsi. Le voci ricominciarono a farsi sentire ma non le scacciò come fece un tempo, riuscendo così a conviverci come se si trattassero d’antiche amicizie dell’infanzia. Azuz ha infine concluso il suo pellegrinaggio in Sardegna, accompagnato da un pastore del mio paese incontrato per caso nelle campagne della Toscana. “Vieni a pascolare il mio gregge”, gli propose l’uomo, “ormai sono troppo vecchio per farlo. Ti pagherò bene, vedrai, non te ne pentirai…”
Ora il nostro amico passeggia tranquillamente tra i monti, ascolta il sibilo del vento, dialoga assiduamente con gli spiriti e ripensa alla sua terra in cui non può ancora ritornare. Vive nella pace e nella serenità più assoluta, ma si fa sempre accompagnare dalla potente pistola con caricatore automatico. Diversi individui, nonostante i buoni propositi, comprendono un solo linguaggio, ed è preferibile imparare a conoscere quella stessa lingua se non si vuole diventare, un giorno, pasto per i maiali.

Vincenzo M. D'Ascanio, 2010.

martedì 26 ottobre 2010

L'omcidio di Peppino Marotto.


Scende la neve sul Gennargentu
batte il vento sulle strade d’Orgosolo,
non s’incontra nessuno per strada,
tutti si proteggono nelle basse case.
Un’ombra presso la Chiesa compare
ma non si vuole affatto confessare,
ha l’espressione truce del Diavolo
ed un revolver nascosto nella giacca.

Dei suoni potenti come tuoni
lacerano l’aria ghiacciata…
Senti i petardi”, pensa qualcuno,
Magari sono i cacciatori… ­

Giace immobile il corpo d’un uomo
riverso supino sulla strada,
giace la vellutata berritta di fianco,
il suo sguardo è rivolto verso il cielo.
Gemono le donne che indossano il velo,
e qualcuno pone un fiore accanto,
la folla s’accalca disperata
poiché la barbarie è tornata ad Orgosolo.
Urlano muti i murales del paese;
parlano della lotta per il pane,
di gente caparbia che ha combattuto
chi voleva occupare quella terra.

Il corpo d’un uomo giace sulla strada,
è Peppino, poeta, sindacalista e tenore,
dal vento è spenta un’altra luce
per una terra già avvolta nel buio.

Dal Gennargentu cala il vento freddo
che piomba sulla salma gelata,
nessuno parla, soltanto silenzio,
qualcuno spranga lesto il portone di casa.
Questa è un’altra storia di Sardegna,
l’ennesima storia di Barbagia,
i colpevoli spariscono nel buio
ad uccidere è stato un fantasma.

Vincenzo D'Ascanio, 2008.

martedì 12 ottobre 2010

Ritorno a casa.

La corriera fortunatamente giunse puntuale, così cominciò il mio disperato viaggio verso casa, tre ore di curve terribili e sensazioni sgradevoli. Durante il tragitto persi immediatamente interesse per il paesaggio, infatti mi ritrovavo imprigionato in uno spazio di ridotte dimensioni, con schiena e testa compressi su un pezzo di plastica duro, mobilità ridotta ai minimi termini e col freddo che m’aggrediva puntualmente ogni centimetro quadrato della pelle. Spifferi d’aria gelata concludevano la loro folle corsa proprio sulla base del collo, ed ero obbligato a coprirmi come se mi trovassi all’interno di un congelatore per essere umani. Se un dittatore sanguinario avesse usato quel viaggio per costringere alla confessione i suoi nemici politici, avrebbe senz’altro ottenuto ottimi risultati. Insomma, se di tanto in tanto qualcuno avesse spento delle sigarette sul mio corpo, sarei entrato in una parte che mi calzava a pennello.
Durante tutto il tempo di curve e controcurve riflettevo su quanto avrei finalmente ritrovato. Avevo vissuto intensamente le prime settimane universitarie, e non avevo avuto né il tempo, né tantomeno la voglia, d’approfondire la portata delle mie impressioni. Di tanto in tanto telefonavo agli amici che frequentavano ancora le superiori, e loro mi raccontavano con entusiasmo i consueti stralci della vita paesana. Ogni volta simulavo una vaga sorpresa nell’apprendere le diavolerie dei personaggi che vivacchiavano nel paese, anche se da alcuni anni erano puntualmente le stesse. L’ape sfondata di “goppai” Ernesto e la minigonna di Assunta la cosciona, la rissa furiosa al bar del vecchio e Franco Zuddas che rovesciava i tori afferrandoli per le corna, Olindo l’ubriacone salvato dalle punture della dottoressa ed il Mitra che si cagava addosso. Tuttavia, e nonostante i racconti che danzavano tra fantasia e demenza, provavo nostalgia per il mio piccolo paese, come si sente la mancanza di un amico stupido di cui, dopo la morte, rimpiangiamo la totale idiozia. Non sapevo riconoscere le ragioni di quel sentimento; non avevo una chiara consapevolezza per cui potevo dire: “Ecco, è questo a mancarmi!”. In realtà, si trattava di un insieme di presentimenti, apprensioni e ricordi amalgamati inconsapevolmente nella mia coscienza confusa ed intorpidita.
Certo… Provavo senz’altro nostalgia per alcune caratteristiche atmosfere, che si creavano soltanto in precisi periodi dell’anno. Attraversavamo l’ultima decade d’Ottobre, settimane nelle quali gli impegni scolastici non erano ancora entrati nella loro fase più acuta, consentendo d’accomodarci pacificamente sulla zattera dell’ozio assoluto. Un pomeriggio poteva trascorrere nella lentezza più assoluta, non avevamo affanni o paure che contaminavano le nostre oasi di serenità. Così c’incontravamo solitamente durante le prime ore del pomeriggio, e pensavamo d’andare nel bosco ad aspettare che il tempo passasse con l’amichevole compagnia della birra scadente, che tuttavia aveva il buon sapore della libertà. Le sigarette dovevano essere fumate nel segreto più assoluto, e se qualcuno portava un po’ di marijuana allora notavi persone che non potevano smettere di ridere, altri irrimediabilmente concentrati in oscuri ragionamenti, altri ancora che cominciavano a vomitare, del tutto incapaci d’affrontare col dovuto coraggio la propria enigmatica psiche. Tuttavia questi piccoli “incidenti” non ci distoglievano dai nostri principali compiti. Il tempo era quasi sempre generoso e l’aria era carica di una speciale attesa. Non dovevamo far altro se non disintossicarci dalle scorie estive, per intossicarci con quelle autunnali. Nella strada del paese e nei bar s’intrattenevano costantemente numerose persone, individui che conoscevi e che ti conoscevano alla perfezione, personaggi immutabili come i monti che svettavano sul paese, uomini e donne che non si smentivano mai. Potevi incontrare l’inflessibile maestro delle elementari o la tua devota catechista, il dirigente della squadra di calcio puntualmente ubriaco, un cugino pastore che insisteva veementemente per invitarti una “tazza” di vino, la bella ragazza semplicemente di tutti, gli amici che architettavamo torture psiche e fisiche per i consueti disgraziati della scuola...
Mentre riflettevo su queste ed altre situazioni mi ritrovai dinanzi alle colline che conoscevo alla perfezione, un’immagine indelebile impressa nella pellicola della mia coscienza. Una leggera sensazione di malessere, una sorta di morsa allo stomaco, cercava di suggerirmi quanto già sapevo, come il secchione della classe che, per evitare una sonora lezione all’uscita, suggeriva ai compagni prepotenti soltanto le risposte più semplici …
Ripensandoci, e riflettendo sulle mie inibizioni, quella poteva essere considerata qualcosa che rasentava l’idea di “felicità”, se di felicità in questa vita si può parlare. Oggi dovrei ammetterlo almeno a me stesso, dovrei allontanarmi dai divieti mentali che m’impediscono di condividere ed accettare anche le sensazioni più immediate. Ero infatti sorpreso nel riscoprire quelle alte abitazioni e le strette stradine, che si dipanavano all’interno della valle come sinuosi serpenti di pietra. Quando la corriera oltrepassò lentamente le prime case della periferia, come un alunno delle elementari posai entrambe le mani sul finestrino, per osservare le strutture che mi scorrevano dinanzi come le immagini di un film muto. Nulla ovviamente era stato ancora modificato, ma osservavo ogni singolo elemento con autentico interesse, come un turista sventato arrivato per sbaglio tra quei boscosi pendii dell’Ogliastra. La Chiesa, la grande piazza in cui erano festeggiate le ricorrenze civili e religiose, il tetro bar di zio Alfonso, con le consuete statue viventi poste a presidio del suo ingresso, il giardino spelacchiato e le sue malinconiche panchine, dietro cui innumerevoli volte avevamo tentato di nasconderci dai rispettivi genitori, che in realtà non cercavano noi, ma esorcizzavano con le loro ronde i fantasmi propinati dai telegiornali di turno …
Scesi dunque dalla corriera circondato da un fondale nostalgico, ma ben contento di ritrovarmi sulla stessa strada su cui avevo camminato centinaia di volte, in compagnia dei soliti amici oppure immerso nella solitudine serale. In quei pochi metri che mi separavano da casa camminai assorto, sprofondato nei ricordi che stimolavano i neuroni indolenziti dalla caotica esistenza urbana. Conoscevo ogni singolo luogo alla perfezione, non c’era un centimetro quadrato che non risvegliasse in me memorie che il tempo non poteva cancellare, perché scolpiti su una materia assai più solida e potente di qualsiasi marmo esistente.
Non appena giunsi dinanzi al portone bussai ed attesi l’arrivo di mia madre, perché raramente mio padre adempiva a simili compiti. Erano trascorsi appena due mesi, ma sembravano trascorsi dei secoli. Quando mia madre apparve alle spalle del grande portone ci guardammo sorridendo, e ci salutammo con un abbraccio. Mio padre arrivò dal suo studio per stringermi la mano, e domandarmi se Cagliari era ancora la stessa città che un tempo aveva conosciuto. Per qualche minuto risposi alle domande dei miei genitori delineando la mia nuova vita, poi corsi in camera per sdraiarmi nel mio carissimo letto, fissando lo stesso soffitto che m’aveva protetto sin da quando ero bambino.

Vincenzo D'Ascanio, stralcio da racconto inedito 2010.

sabato 25 settembre 2010

Lavando i piatti...


Dinanzi ai piatti, numerosi piatti,
mi sento spiazzato
da un'impresa impossibile.
"Ne laverò uno!" Mi dico,
per altro un po' scettico.
Va bene, lo lavo, dunque
passo al secondo.

Allora comincio a vaneggiare
penso ad un amico,
ad un film di cui non ricordo il finale
ed immagino i cessi della stazione di Cagliari
uno schifo che più schifo non si può.

Mi volto a guardare i piatti,
cioè, ne son rimasti solo due.
In effetti si poteva fare
non era poi così difficile...
Allora guardo la macchina parcheggiata
che non lavo da un bel po',
mi preparo ad una nuova impresa
ma decido presto di lasciar perdere.

Meglio non esagerare.
Un'azione alla volta, se fatta bene,
può anche bastare.

V. M. D'Ascanio.
Da "scriverò qualsiasi cosa."

sabato 18 settembre 2010

Inseguendo l'abbaglio.


Carbonia. Un tempo speranza per moltitudini indefinite di persone, giunte da tutte le Regioni d’Italia per trovare un lavoro, forse lusingate dalla propaganda totalizzante del regime, celebrante ossessivamente la propria potenza sociale ed edificatrice. In tanti furono collocati nelle innumerevoli miniere disseminate nel territorio, in cui trovarono sostentamento per le proprie famiglie ma talvolta anche la malattia, che giungeva definitiva su deboli corpi snervati dalla fatica. Numerosi libri, disparate ricerche, centinaia di pagine hanno parlato e ci parlano delle vicissitudini, del dolore, della storia e del coraggio di questi indomiti operai, uomini sacrificati sull’altare pagano del salario in una Repubblica fondata sinistramente sul lavoro. Eccoli, pertanto, lavoratori ammazzati dalle frane, lavoratori lacerati da esplosioni sotterranee, lavoratori morti per silicosi, lavoratori intrappolati, schiacciati, strozzati da micidiali esalazioni nocive…
Già, Carbonia, emblematica città del carbone. Città sorta improvvisamente dalla polvere, un po’ come la mitica Las Vegas, realizzata tuttavia nel deserto americano e non nelle solitarie campagne del Sulcis. Carbonia, città simbolo della potenza mistificatrice del regime fascista, città metafora dell’utopia stessa della dittatura imperialista, che ambiva a plasmare un insieme eterogeneo di persone per tramutarle in Nazione compatta, concentrata e solida… Con le dovute proporzioni il nucleo sulcitano rispecchia ciò che il fascismo fece, o tentò di fare, sull’estesa penisola fusa dalle armi dei Savoia. Una Nazione inesistente, una Nazione composta da popoli, etnie e culture diametralmente opposte e variegate. Repubblica di Venezia, Stato Pontificio, Granducato di Toscana, Regno Sardo Piemontese e quello Delle Due Sicilie, microcosmi in cui si strutturarono consuetudini sociali ed intellettuali che prendevano vita da esperienze profondamente diverse. Il fascismo provò ad accordare queste discordanze, cercò di farlo con l’immagine, con la propaganda, forse tentò con l’ordinamento giuridico, di certo provò col manganello e con la spada. A Carbonia tentò di farlo promettendo lavoro e prosperità ma queste masse, più che dalle pianificazioni, dagli slogan istituzionali e dalle prestigiose rappresentazioni, furono compattate dal cemento del dolore e delle difficoltà quotidiane, dall’antica battaglia dei popoli per la sopravvivenza e l’onore.

***


Attraversando le strade di Carbonia si possono incontrare individui che nulla hanno in comune se non le linee verticali del loro destino. I tratti somatici sono sostanzialmente diversi: ecco un viso nordico ed uno meridionale, un ragazzo dai tratti africani ed uno dai lineamenti anglosassoni, ed ancora singolari incroci di cromosomi, quasi stessimo visitando un laboratorio genetico a cielo aperto. Chissà… Sarebbe stato interessante vivere in quei tempi, per verificare in prima persona gli albori di questo nostrano melting pot, come gli yankee chiamano il coabitare di differenti etnie su un medesimo territorio. Questa cittadina è infatti un infinitesimale melting pot, un miscuglio, un promiscuo impasto in cui furono forgiate le differenti culture della nostra Nazione. Napoletani, veneti, siciliani, laziali, abruzzesi, qualsivoglia genere di meridionali e naturalmente sardi. Tutti insieme catapultati in un giovane ed asciutto contesto ambientale, ammassati in abitazioni identiche le une alle altre, a schiera, lineari, a croce, secondo uno stile architettonico rispecchiante l’ordine generale ambito dal romano regime. Oggi come allora l’intreccio è certificato dai cognomi ancora presenti, come tracce lasciate sulla sabbia da uno stanco venditore di tappeti orientali. Cognomi non di certo sardi, talvolta lombardi o calabresi, cognomi grotteschi, cognomi che talvolta si trasformano in aggettivi, sostantivi o verbi. Cognomi appartenenti a famiglie un tempo dominatrici, cognomi che potrebbero evidenziare un vizio oppure una colpa della casata originaria, cognomi che documentano lo stato d’abbandono al momento della nascita, cognomi che talvolta storpiano, etichettando un individuo già nel vitale istante in cui, nascituro, emigrò piangente dall’utero materno.
I ricordi della cittadina si manifestano non appena chiudo gli occhi. Soltanto allora posso ancora vederli, mentre ancheggiano nelle strade abbondanti soltanto di pietrame e polvere. Anziani dimenticati su panchine isolate, anziani barcollanti nei larghi marciapiedi, anziani morenti, solitari, sgretolati, mentre si dirigono fiaccamente verso l’appagante ingresso in una Chiesa dalle linee moderne. Ricchi di patos e rassegnazione, incedono stoicamente coi loro consueti bastoni, meditando sulle frasi del prossimo dialogo con l’Altissimo. Si, l’Altissimo, il Direttore generale, il Capo Squadra, quale forme assumerà l’idea dell’Onnipotente nella loro fantasia onirica, con quale voce Questo risponderà alle loro affermazioni? Con quella dell’amico d’infanzia, del padre, della madre, della prostituta a cui rivelarono tutti gli intimi segreti, oppure della moglie persa in una corsia d’ospedale, proprio quando sembrava che potesse farcela… Ebbene si, parleranno coi morti, chiederanno giustizia oppure perdono per delle mancanze, per delle parole, per degli atti scolpiti nell’immacolato marmo dell’eternità. Cosa mai domanderanno, inginocchiati sui banchi di legno massiccio, cosa reclameranno, durante lo scandire delle preghiere ritmate? Una morte indolore, la telefonata di un figlio irriconoscente, la parola gentile di un’infermiera diventata troppo esigente? Oppure chiederanno un briciolo di gioventù, magari col pugno agitato verso il Crocefisso così, per mostrare ancora di cosa sono capaci, di quali gesta gagliarde e temerarie sono ancora custodi. Una rivincita, un duello, un faccia a faccia nel regno dei morti, una richiesta da niente, un piccolo tributo sull’altare della loro coerenza, nient’altro…

***


Eccoli allora atomizzati, in braccio a quelle strade ciottolose che conoscono alla perfezione. Quando un conoscente li saluta accennano un sorriso, nello sguardo la lontana gioventù scivolata troppo rapidamente, come quella nave che attraversò il Tirreno per catapultarli là, nel Sulcis, il granaio dei romani, lontani dalle loro madri, dalle loro amicizie e dai primi malinconici amori… Non so. Si riconosceranno nei giovani che osservano vagabondare sulle stesse strade impolverate? Magari intuiscono quegli sguardi, comprendono la loro pelle e qualche accento non del tutto dissolto, tracce affievolite d’appartenenza a famiglie che non hanno perso del tutto le proprie peculiarità. Si, quei giovani apatici e disperati, quei giovani certamente più istruiti ma del tutto ignoranti dell’essenziale. Quei giovani dal futuro tecnologico su cui s’erano riposte aspettative straordinarie, quei giovani divenuti già uomini ed immortalati nelle immagini sbiadite, qualcuna persino in bianco e nero, qualcuna già sulle marmoree lastre dei cimiteri, vittime del lavoro, dell’ebbrezza o di droghe, ma in primo luogo di se stessi. Giovani emigrati verso legittimi sogni, come tanti anni prima tentarono loro, attratti fatalmente dalle ridondanti sirene del regime.
Dinanzi a noi si presenta pertanto il ponte immaginario tra queste generazioni disarticolate, tra questi anziani, eternamente seduti sulle panche solitarie, e quei giovani occultati negli angoli delle strade. Il legame ideale, ovvero una meta fatalmente inseguita per generazioni, un’ambizione cresciuta con lo scorrere del tempo, un’attesa identificabile in un concetto fragile ed inconsistente. Come in altre province dell’isola, anche qui il lavoro si trasforma nella ragione del profetico esodo verso altre regioni, come se Carbonia si trovasse in una fase d’implosione, e le famiglie giunte dai territori d’oltremare stessero rimpatriando nei rispettivi contesti, come se nulla fosse mai accaduto, come se nessuna città fosse mai stata realizzata. Inseguendo il lavoro s’insegue parallelamente la speranza, e tu l’intuisci nei giovani disoccupati, riconosci quelle espressioni quando parlano della crisi di Porto Scuso, della Cassa Integrazione o dello smembramento delle loro aziende. Identifichi facilmente quelle voci e quegli sguardi, sai distinguere con certezza le identiche conclusioni rassegnate. Le stesse parole e le stesse frasi soffocate, nel Sulcis come in Ogliastra, nel Marghine come nel Sassarese. Questi giovanti disorientati accomunati da una prospettiva: partire, abbandonare queste città per condurre un’esistenza dove non si debba chiedere nulla, dove non si debba contestare nulla, dove non si debba salire sulle ciminiere delle fabbriche per urlare le proprie rivendicazioni. Ognuno con una chiara vocazione, tutti con l’identica speranza: poter ritornare in questa terra e tra queste persone, per ricavarsi uno spazio nella città in cui sono nati e cresciuti. Ritornare… Perché la propria casa non può essere sostituita da un’altra casa, e nessuno intende ribellarsi alla nostalgia travolgente che inonda questo cuore di esuli. Sardegna mia, per quanto tu sia bella, illimitatamente splendida e fiera, ti trasformi in un abbaglio che non si può abbracciare.


Vincenzo D'Ascanio, indedito 2010

giovedì 9 settembre 2010

Dovevano sopprimermi appena nato.



Da qualche ora sfacchino nel letto
non riesco a dormire in alcun modo,
sconquasso assiduamente le trapunte
corrotto da infiniti inservibili pensieri.
I condomini ringhiano sconvolti:
il ragazzo si demolisce con l’eroina,
“la colpa è tua”, “no, è tutta tua…”
Intanto io non posso a dormire.

Nel rione fradicio rimbombano
i bruschi effetti della polizia,
un incendio doloso illumina a giorno
i luridi marciapiedi della città.
Anziani superstiti su pianerottoli isolati
ancorati ad una condizione forzata,
alcolizzati disarticolati senza compromessi
brindando rabbiosi alla luna pallida.
Donne sguaiate rincasano affrante
spargendo indomite sconosciuti accenti,
singhiozzano, sbraitano, non so che fanno,
mi spiace, ma non posso dormire.

Angoscia, dolore, meraviaglia,
amore, superstizione e noia,
immagini fangose, talvolta brillanti
premesse per un pensiero chiaro.

Dovevano sopprimermi, appena nato,
dovevano strozzarmi, appena nato,
dovevano impedirmi di respirare
per non vivere tutto questo.
Bastava certamente un’infermiera,
non pretendevo una capo ostetrica,
dovevano sopprimermi appena nato
volevo solo e soltanto dormire…


Vincenzo M. D'Ascanio, inedito, 2010.

giovedì 2 settembre 2010

Una pistola carica.



Grazie a questa particolare situazione le condizioni di Maurizio migliorarono notevolmente. La prima volta che l’incontrai era uno straccio impiastrato di sangue ma si sa, i giorni dell’astinenza non sono una passeggiata sul lungomare di Rio. Quando degenerava gli infermieri non mi permettevano d’entrare, allora mi sedevo su una panchina e provavo ad immaginare l’inimmaginabile. Un pomeriggio ci ritrovammo nell’immenso giardino dell’ospedale. Nei viali circondati da alberi scheletrici passeggiavano numerosi degenti, altri erano spalmati sulle panchine, qualcuno discuteva coi propri fantasmi, un politico ricoverato cercava di sedurre una diciassettenne maggiorata… Gli infermieri stavano a braccia incrociate lungo i viali, statue di sale in attesa del sole che le sciogliesse. In quelle ore Maurizio stava bene, sorrideva lasciandosi andare a numerose confidenze. Fu lui ad incominciare il discorso, mentre una sigaretta gli si consumava tra le dita magre.
“Di la verità, mi consideri un coglione, non è vero?”

Non risposi, che dire, ogni frase m’appariva inopportuna, le banalità lasciamole a chi vuole fare la rivoluzione della carta igienica. Voleva parlarmi, ed io ero pronto ad ascoltarlo. Quando una persona è a pezzi sono ben disposto, mi stupisco del fatto che qualcuno possa stare peggio di me… Il suo viso era ripiegato su se stesso, aveva un’aria del tutto concentrata, pareva quasi assente. Talvolta consideravo che non ero io il suo interlocutore, se al mio posto ci fosse stato un distributore di sperma infetto non sarebbe cambiato molto. Forse voleva parlare soltanto con se stesso, io non ero altro che un mezzo per raggiungere la sua interiorità, uno specchietto retrovisore scheggiato riflettente stati emotivi... E’ complicato raccontare ciò che Maurizio mi disse. E’ difficile penetrare nella mente di un tossicodipendente, un labirinto intricato dove nessun folletto psicopatico vomita molliche di pane per farti ritrovare il sentiero… Come no?

Ti liberi del cordone ombelicale ed in un istante sei un utente, ti imbatti nei pazzeschi anni dell’adolescenza, tra un calcio e l’altro qualcuno ti dice: “occhio, la vita è dura”, ma nessuno prospetta con esattezza quanto. Si, il bambino biondo che armeggia coi suoi soldatini tra quindici anni sarà un eroinomane, adopererà cucchiaini ed innocenti fiamme, dal braccio scivoleranno alcune gocce di sangue. Anch’io giocavo coi soldatini, facevo parlare cucchiai e forchette ed ero un prodigio nel gioco della ghigliottina, ma nessuno poteva immaginare per me un futuro in libertà vigilata. Soltanto zio Bachisio vi fantasticava, quel disgraziato m’aveva sempre visto di cattivo occhio, accidenti a lui. Ed invece si… Maurizio, il piccolo e paffutello Maurizio, con una siringa infilzata nel braccio magro, un tirassegno per sciacalli, roba da non crederci. Poi, lineare, durante una stellata notte estiva, nella spiaggia di Cala Mosca giunge energico il primo rito. La prima dose perché sei curioso e sei tanto stupido da pensare che gli “amici” ti osservano. La seconda dose perché la persona che ami è un’eroinomane… “Condividiamo tutto”. La terza dose perché i tuoi sogni si sono sgretolati come i castelli di sabbia che innalzavi sulla spiaggia. La quarta dose perché la tua vita è tutto, meno ciò che desideri veramente. La quinta dose perché tuo padre è un grandissimo stronzo consumista assente. La sesta dose perché cominci a farti lusingare dall’autodistruzione. La settima dose perché non farlo comincia ad essere straordinariamente doloroso.

Maurizio ha seguito queste tappe con la stessa volontà e dedizione di un Bartali in piena evoluzione. Perché accade che una persona piacevole come Maurizio possa sentirsi spaesata, così una mano ideale ci accompagna dalla persona della nostra vita, altre volte ci presenta una passione, amore, colore, altre volte ti porta in “luoghi non luoghi” terribili, oscuri, angusti, smaterializzanti. Questa mano invisibile, dio, destino, fato, karma, o come accidenti volete chiamarlo, ha accompagnato gentilmente il mio amico al contatto simbiotico tra una vena pulsante ed un ago scintillante, un contatto fattosi vitale come quello di un malato terminale aggrappato alla macchina che gli permette di respirare.
“Inizialmente l’eroina non è male.” Queste le sue parole. INIZIALMENTE. Il dopo è il problema, forse. Oppure il problema era prima, a monte, interiore…

Cominci a farlo tiepidamente per rinfrescarti con la trasgressione, per distendere nervi tesi sovraccarichi di quotidianità e sozzura ridondante. Con meraviglia e spasmi di terrore t'accorgi che l’eroina non è più un sollazzo, un gioco, una diavoleria per sfidare le maglie dell’ordinamento giuridico, ma si trasforma nel fine ultimo di tutte le tue azioni. Cominci una nuova vita, cominci a frequentare nuove persone, entri a contatto con nuovi pericoli, sei vigile come una pantera. Soltanto allora hai tutte le carte in regola per cominciare la corsa al denaro, mai così decisivo, e di pari passo iniziano le menzogne, i piccoli furti che si susseguono in un’escalation d’importanza, s’inaugurano le prime dosi consumate in completa solitudine, celebrazione sfrenata della tua indiscutibile dipendenza…

Durante quel temperato pomeriggio invernale Maurizio mi descrisse con dovizia di particolari la sua prima terrificante crisi. Ne parlava con un pizzico di nostalgia, forse provava commiserazione per se stesso, per quel ragazzo che voleva e poteva ancora farcela… Si trovava nel balcone della sua magnifica villa in Viale Merello, durante una piatta serata d’Ottobre. Il sole tentava di nascondersi alle spalle dei monti lontani, dalla strada giungevano i metallici suoni del traffico urbano. In quei giorni il “nostro” aveva deciso di non assumere eroina, perché voleva dimostrare a se stesso che non ne aveva bisogno. I primi effetti della dipendenza s’erano manifestati ed anche il mio amico, com’è accaduto a molti, cercava un conforto interiore agli allarmanti segnali generati dall’organismo. Mentre stava accovacciato sulla poltrona, le gambe strette contro il petto, le braccia incrociate attorno alle ginocchia, osservò con distrazione i contorni labili delle montagne, il volo circolare degli uccelli e prestò attenzione ad una musica sinfonica proveniente dalla casa dei vicini. Le sue gambe si distesero, la cassa toracica cominciò a muoversi seguendo ritmi regolari. S’addormentò dunque beato, soddisfatto, rilassato… SPAVENTATO! Fu svegliato come dallo scoppio di una paurosa carica di tritolo emozionale, ipotizzate un attacco di panico elevato all’ennesima potenza. La sua gola s'era seccata, l'emicrania dominava arrogante, i nervi, soprattutto quelli del collo, si tendevano come le corde di un violino.

“Sigarette, dove cazzo sono le sigarette… Acqua, sete… Mamma… Mamma… Sudore… Dolore… Ci vorrebbe… Aulin, un antidolorifico… Ci vorrebbe, ci vorrebbe…”

Comprese istantaneamente ciò che accadeva, e prima che giungesse il peggio era già sulla sua moto, in cerca dello spacciatore che, cordiale, elargiva pazientemente una santa dose al popolo. A centosessanta sull’asse mediano presero appuntamento sulle scalinate della Chiesa di Bonaria, dinanzi al golfo avvenne il fatidico scambio ed in men che non si dica Maurizio era accucciato sul lindo cesso della sua abitazione. Era completamente sudato, inzuppato, inondato, mani e gambe tremavano, perdeva singolarmente saliva dal lato destro della bocca, i pensieri si sorpassavano furiosi ma almeno tra le mani stringeva la magica, e questo lo faceva stare già meglio. Nonostante fosse un principiante aveva tutti gli strumenti del mestiere, sigillati in un cofanetto metallico che riusciva a nascondere con comodità tra gli sciagurati volumi della sua libreria. Compì i gesti della trasformazione davanti allo specchio del bagno, con lo stesso ornamento di un sacerdote druido. Legato il tubicino di gomma all’altezza del bicipite sinistro, iniettò lentamente l’eroina con un deformante ghigno sulle labbra, e come un fiume la dose scivolò nel lago del suo sangue contaminato. L’ultima immagine conservata è il momento in cui precipitò dalla tazza del cesso, per andare a schiantarsi sul pavimento. Si risvegliò dopo due ore eccezionalmente intontito, con una fame da cane randagio, un sopracciglio insanguinato per via della caduta, pisciato, e con la siringa ancora infilzata nel braccio… Si sentiva risorto, un tormentato Lazzaro dei nostri tempi maledetti. In realtà, era come se per alcune ore non esistesse più, sparito, volatilizzato, PUFF…


Adesso era ritornato il lui, forse in quella siringa non c’era eroina, c’era lui stesso, come se la droga ti portasse via ed il tuo essere si trasferisse, vivesse, respirasse, nella sostanza stessa... Brutto scherzo… Proprio un brutto scherzo.

Quella sera la casa di Viale Merello era deserta, tutti s’erano trasferiti nel litorale (la loro casa sul Margine Rosso, lo seppi più tardi, era uno spettacolo infinito). Questo particolare aveva impedito che qualcuno lo sorprendesse nel limbo… Maurizio mi descriveva le situazioni come se non gli appartenessero, come se stesse divagando su un amico che conoscevamo entrambi, un amico che ci aveva sempre divertito. Continuava a fumare con disinvoltura le sue sigarette, e s’interrompeva soltanto per osservare qualche bella infermiera che danzava vicino a noi, o qualche bizzarro infermiere che ci scrutava con disprezzo. Le sue condizioni miglioravano, non era più il ragazzo annientato incontrato in Facoltà. Si stava trasformando nel Maurizio che conoscevo, sempre pronto ad invaghirsi di qualche bella ragazza, a scherzare con tutti, oppure ad organizzare qualche tiro mancino a chi se lo meritava. Mentre l’osservavo riprendevo fiato, nonostante tutto, ero sicuro che il mio amico ce l’avrebbe fatta…

Il giorno del suo funerale il Dio della Pioggia aveva deciso di fare gli straordinari. Sembrava quasi che ti stessero lanciando addosso delle secchiate d’acqua, ma quel pomeriggio tenere un ombrello mi sembrava un lusso inutile. La gentaglia come me, d’altronde, non lo portano mai… La pioggia scivolava sul mio volto scavato e sulla barba, batteva su fronte e mani devastate, sulle cicatrici, ma non sentivo freddo, solo rabbia. I cipressi s’inchinavano alla furia del vento, anche loro parevano prostrarsi dinanzi alla maestà della morte…

Overdose nell’androne di un palazzo in costruzione, due righe di cronaca sul giornale locale per evidenziare su tutto l’appartenenza alla famiglia facoltosa. Mi trovavo coinvolto in una solitudine glaciale, da quando ero uscito dal carcere Valeria non m’aveva ancora rivolto la parola, Agostino era sconvolto da uno dei suoi mix, Azuz era stato rispedito in patria a calci nel sedere, ed Elena doveva piantonare l’ospedale per una spaventosa emergenza al reparto infettivi. Ero nervoso come un cinghiale ferito, ogni tanto osservavo i genitori di Maurizio, maledivo tutto quello che c’era da maledire, mi morsicavo dita e labbra. Emergevano dall’oblio immagini di quando eravamo bambini, esclusivamente ricordi di quando eravamo bambini. Maurizio che mi sorride tra i banchi della scuola, Maurizio che scombina i piani delle catechiste, Maurizio con un pallone tra le mani che mi sceglie per la sua squadra. Aveva gli occhi scintillanti come due smeraldi, un sorriso che bruciava talmente era intenso, ma ora non c’era più, o forse c’era, ma io non lo vedevo. Di tanto in tanto gli parlavo… “Maurizio, accidenti a te…” “Maurizio sei un cagone di merda…”

Quando sei ragazzino non ti prospettano questo genere di soluzioni, talvolta un parente, o tua madre, ti maledicono ruvidamente, ma nessuno ipotizza seriamente un simile finale. Soltanto la mia insegnante di religione, durante una placida mattinata primaverile, azzardò. Avevo combinato un guaio, allora lei s’avvicinò al mio viso, mi guardò negli occhi e col suo alito fetido mi disse: “Tu non diventerai mai nessuno. Ricordatelo bene, non diventerai mai nessuno.” Me lo disse con disprezzo, con quell’odio subdolo che soltanto le suore pazze riescono a sprigionare. La “sorella”, tuttavia, si sbagliava. Si, forse non sono ancora nessuno, e forse non lo sarò mai, ma mi manca un pizzico tanto, un’azione breve e coincisa, organizzazione ed impegno, per essere etichettato definitivamente quale delinquente abituale. Un accidenti di recidivo, un potenziale pericolo da tenere d’occhio! In questo modo anch’io potevo vantare un titolo, “nessuno” l’avrebbero detto a chissà chi… Come dice la televisione, non importa se raggiungi o meno i tuoi obbiettivi, l’importante è ciò che provi quando stai cercando di raggiungerli… Io sono una pistola carica.


Vincenzo M. D'Ascanio, inedito 2010