Prima di diventare pastore, e prima ancora di giungere in Sardegna dall’Africa, Azuz era stato uno spietato mercenario al servizio di re, imperatori e governi fantoccio insediati dalle potenze europee ed americane. Aveva combattuto nelle guerre per i giacimenti di diamanti, era stato assoldato da società petrolifere per soffocare le rivolte nella Nigeria settentrionale, aveva combattuto anche per i ribelli talebani, durante i cruenti scontri della Somalia… Queste circostanze, tuttavia, non devono provocare la vostra indignazione, perché Azuz più che carnefice è stato vittima, anche se può sembrarvi quantomeno strano. Quando aveva soltanto cinque anni il suo villaggio fu raso al suolo dal capitano Mukaba, spietato soldato di ventura al servizio delle multinazionali occidentali. I membri della sua famiglia furono sterminati e Mukaba lo prese con sé non per compassione, ma con l’infame intento di farlo diventare un guerrigliero feroce, una macchina da guerra pronto ad eseguire ogni suo ordine. Azuz fu prima duramente addestrato e poi mandato a combattere: sul campo di battaglia si macchiò di numerosi delitti efferati, come gli avevano insegnato i suoi cattivi maestri. Dopo anni di stermini, saccheggi, violenze e distruzione la sua mente cominciò a vacillare, voci convulse e frenetiche avvelenavano la sua coscienza, urla che pretendevano insistentemente vendetta per le vittime che lui stesso aveva causato. Azuz voleva liberarsi di quei demoni che gli rendevano la vita insopportabile, per questo raggiunse il villaggio di Araàs, dove viveva uno stregone celebre in tutta la regione per i suoi esorcismi. Le parole dello sciamano furono lapidarie, e senza possibilità di replica. Se desiderava liberarsi dalle voci, Azuz doveva eseguire il loro comando: ammazzare il capitano Mukaba.
Durante una notte calda ed umida, in cui non soffiava il vento e gli uccelli notturni attendevano in un surreale silenzio, Azuz s’alzò dal suo letto per dirigersi silenziosamente verso la capanna del capitano. Tra le mani stringeva un affilato macete, lo stesso che aveva più volte utilizzato per ferire, decapitare, mutilare. La parte inferiore della lama era illuminata dai confortanti raggi della luna, il passo di Azuz era rapido e deciso mentre gli spiriti gli ordinavano ripetutamente di sbrigarsi. Una volta giunto dinanzi alla tenda recise con cura il tessuto, quindi oltrepassò lo squarcio e s’avventò deciso sul corpo del capitano. In seguito ad una breve lotta gli mozzò la testa con un secco fendente, e questa rotolò sul pavimento come una zucca caduta dalle mani di un bambino. Le voci istantaneamente si placarono, i demoni abbandonarono la sua anima mentre la morte stendeva il mantello nero sulla salma straziata del capitano. Azuz s’alzò dal corpo esanime e respirò profondamente. Finalmente era libero… Soltanto allora il silenzio che dominava la notte lo sorprese per la sua profondità. Decise d’andarsene portando con sé alcune armi del comandante, ma mentre stava per oltrepassare l’apertura vide due diamanti risplendere nell’oscurità. Due diamanti che ardevano come il fuoco, due diamanti che avevano i lineamenti d’occhi impauriti, ma pur sempre carichi d’odio estremo. Quella notte Mukaba non era stato solo, poiché una donna della tribù Kavaswy aveva riposato al suo fianco. “La donna di un carnefice deve essere uccisa!” Pensò il ragazzo, una risoluzione chiara come le limpide acque del fiume al mattino. Azuz avanzò di un passo, con la mano sinistra le afferrò i capelli ed alzò il macete con la destra, pronto a tranciarle la testa, pronto a regalarle l’identico destino del suo sanguinario amante. Una sensazione opprimente tuttavia lo colse, un’intuizione dell’anima che s’insinuò in ogni specifico atomo del suo organismo. Azuz era fatalmente stanco del sangue, troppi occhi s’erano spenti per sempre dinanzi ai suoi. Lasciò andare la presa, per l’ultima volta affondò il suo sguardo in quelli della donna tremante, quindi fece cadere il macete ancora macchiato dal sangue caldo. Attraversò rapidamente lo squarcio della tenda, per essere nuovamente inghiottito dalla medesima oscurità che l’aveva partorito. Mentre affondava nel fango udì le urla della donna lacerare la notte, vide il bagliore dei fari perforare il buio ed ombre correre verso la tenda del capitano. Poi udì degli spari, ancora altre urla, cani rabbiosi che abbaiavano, uomini agitarsi forsennatamente. Tutto ciò non lo preoccupava affatto, perché si trovava già all’interno della palude, dove nessuno poteva catturarlo, dove nessun segugio poteva fiutarne l’odore.
Azuz sapeva che doveva fuggire, perché se gli uomini di Mukaba l’avessero preso prima l’avrebbero torturato, e soltanto dopo inauditi tormenti gli avrebbero concesso la morte. Non sapeva esattamente dove scappare, non aveva portato nulla con sé, e durante quella notte molteplici possibilità si presentavano nella sua mente. Questo scorrere d’immagini proseguì sino a quando non vide, la mattina successiva, un’immensa fila di persone che camminavano silenziosamente verso una destinazione ignota. Azuz s’avvicinò, e grazie ad un congolese scoprì che quella malinconica processione era diretta verso il porto di Adith, dove una nave attendeva di salpare alla volta dell’Europa. Il mercenario non sapeva nemmeno dove fosse collocata quest’Europa, talvolta aveva eseguito delle stragi per tedeschi, italiani o francesi, tutti europei, ma mai s’era domandato dove si trovasse questa dannata Europa. Per dire la verità, Azuz non sapeva nemmeno dove si trovasse l’Africa, ma saperlo non sarebbe servito a salvargli la vita. Ciò che contava era scappare il più presto e lontano possibile, ed il miglior modo per farlo era quello d’unirsi a quel compatto cordone umano, a quella surreale processione di sventurati nata in nome della speranza. Senza porsi ulteriori domande si unì perciò alla carovana, e dopo aver percorso centinaia di chilometri arrivò stremato dinanzi alle tiepide acque del Mediterraneo. Soltanto al porto seppe che per imbarcarsi occorreva molto denaro, ma per uno come lui questo non poteva essere un problema. Ad Adith si sarebbe procurato facilmente il necessario; si trattava di un porto affollato e non avrebbe avuto difficoltà ad avere ragione su qualche distratto turista europeo, incautamente incappato in uno degli stretti e bui vicoli del rione portuario. Avrebbe forse ottenuto il necessario senza uccidere nessuno, ma l’avrebbe certamente fatto, se questo era il prezzo della sua libertà. Azuz, tuttavia, non sapeva qual era l’effettivo valore della libertà, sino a quando non vide la nave che l’avrebbe trasportato nei “sicuri” porti europei. Si trattava di un rottame scassato ed arrugginito, che pareva adatto soltanto ad adagiarsi sui morbidi fondali marini. Traboccava di persone in ogni sua parte, qualcuno stava aggrappato alle balaustre, mentre altri disperati continuavano a salire come anime pronte a varcare la soglia dell’Inferno. Non c’era spazio nemmeno per respirare, ed il sole picchiava prepotentemente sulle teste di uomini, donne e bambini, tanto educati alla sofferenza che neppure immaginavano di lasciarsi andare ad alcun pianto infantile.
I barili dell’acqua potabile furono esauriti ancor prima d’abbandonare il porto, ma quando tutto pareva perduto un Dio annoiato concesse un’inaspettata pioggia per riempire le provviste. Alla pioggia tuttavia seguì presto la tempesta, in cui le onde grandiose avanzavano come mura in cemento armato adatte a flagellare quello scherno d’imbarcazione, marcia come il cadavere di un soldato abbandonato nel fossato di una trincea in disuso. Durante la bufera diverse persone furono inghiottite dal mare, molti persero la vita dopo essere stati flagellati sulle balaustre scricchiolanti della nave, altri ancora morirono mentre cercavano di salvare i loro bambini o le loro mogli. La bagnarola tuttavia non affondò e rimase miracolosamente a galla, ciondolante come un gigantesco tappo di sughero. I superstiti versarono lacrime amare per i loro cari, consapevoli d’essere stati risparmiati ma privi d’ogni proposito di gioire. Azuz aveva avvertito la morte molto vicina ma non soffriva, perché nel campo di battaglia era stato abituato a fare i conti col pericolo, e grazie alla follia assassina di Mukaba aveva perso tutte le persone per cui valesse la pena di piangere. Quando vide un bambino che l’osservava tra le braccia della madre morta, tuttavia, un’emozione aggressiva gli straziò il cuore, una sensazione a cui era ormai disabituato, ma che subito allontanò con la sua consueta durezza. Mentre la Guardia di Finanza li scortava nel porto di Lampedusa, cercò quello stesso bambino tra i naufraghi ma non lo vide. Era probabilmente morto per via degli stenti, o forse era riuscito a sopravvivere, preparato ad affrontare la sua odissea come l’ex mercenario era pronto ad affrontare la sua.
Dopo alcuni giorni di brutale prigionia Azuz riuscì a fuggire dal CPT, che non pareva certamente un luogo di prima accoglienza per gli immigrati ma piuttosto un ristretto campo di concentramento marziale. Per alcuni anni visse in Campania, sfruttato nelle immense campagne meridionali insieme ad africani, rumeni e slavi. Lavorò anche in una fabbrica sotterranea, i cui padroni erano cinesi al soldo della camorra, che gli imponevano orari e ritmi di lavoro massacranti. Dopo qualche mese fu ghettizzato in un seminterrato nei quartieri spagnoli di Napoli, poi costretto nuovamente a fuggire perché implicato in una faida tra bande per il controllo del mercato della prostituzione. Azuz era un esperto di armi, eredità della sua precedente professione di guerrigliero, e la sua abilità fu acutamente notata dalla famiglia Esposito, che l’assoldò per un lavoro semplice e meno faticoso: quello del killer. Azuz aveva giurato a sé stesso che non avrebbe mai più ucciso degli innocenti, ma i camorristi sono colpevoli a prescindere, e pur non essendo del luogo comprese immediatamente qual era la bieca attività di un camorrista: ricattare, sfruttare, utilizzare la prepotenza verso chi non è in grado di difendersi. Ammazzarne qualcuno sarebbe stato un piacere, non importava se doveva farlo per altri camorristi altrettanto criminali… La famiglia Esposito, ad ogni buon conto, fu quasi sterminata dalla famiglia Branca, ed Azuz dovette andarsene anche da Napoli, per sfuggire alla vendetta dei nuovi padroni dei quartieri spagnoli.
Dopo alcuni giorni di brutale prigionia Azuz riuscì a fuggire dal CPT, che non pareva certamente un luogo di prima accoglienza per gli immigrati ma piuttosto un ristretto campo di concentramento marziale. Per alcuni anni visse in Campania, sfruttato nelle immense campagne meridionali insieme ad africani, rumeni e slavi. Lavorò anche in una fabbrica sotterranea, i cui padroni erano cinesi al soldo della camorra, che gli imponevano orari e ritmi di lavoro massacranti. Dopo qualche mese fu ghettizzato in un seminterrato nei quartieri spagnoli di Napoli, poi costretto nuovamente a fuggire perché implicato in una faida tra bande per il controllo del mercato della prostituzione. Azuz era un esperto di armi, eredità della sua precedente professione di guerrigliero, e la sua abilità fu acutamente notata dalla famiglia Esposito, che l’assoldò per un lavoro semplice e meno faticoso: quello del killer. Azuz aveva giurato a sé stesso che non avrebbe mai più ucciso degli innocenti, ma i camorristi sono colpevoli a prescindere, e pur non essendo del luogo comprese immediatamente qual era la bieca attività di un camorrista: ricattare, sfruttare, utilizzare la prepotenza verso chi non è in grado di difendersi. Ammazzarne qualcuno sarebbe stato un piacere, non importava se doveva farlo per altri camorristi altrettanto criminali… La famiglia Esposito, ad ogni buon conto, fu quasi sterminata dalla famiglia Branca, ed Azuz dovette andarsene anche da Napoli, per sfuggire alla vendetta dei nuovi padroni dei quartieri spagnoli.
Nel suo pellegrinare il giovane africano incontrò un’Italia assai diversa da quella immaginata, un’Italia egoista, che non aveva alcuna intenzione d’accoglierlo ed avrebbe di certo preferito vederlo annegare nelle fredde acque del Tirreno. Una Nazione dove risorgeva un anacronistico razzismo, dove la paura per il diverso era alimentata da una propaganda politica bugiarda ed ipocrita. Le persone l’osservavano abitualmente con sospetto, nessuno azzardava un gesto d’aiuto, talora fu persino aggredito, come avvenne nell’affollata stazione ferroviaria di Firenze. Alcuni ragazzi dalle teste rasate volevano divertirsi a sue spese, ma le cose andarono assai diversamente rispetto a quanto avevano desiderato. Quando era stato mercenario per Mukaba, Azuz aveva imparato ad uccidere e mutilare, per la famiglia Esposito aveva invece imparato a gambizzare, e gli stivali lustri di quei giovanotti furono presto macchiati del loro stesso sangue. Azuz aveva compreso che i buoni propositi hanno un giusto valore, ma gli uomini spesso non ti consentono di realizzarli, sopratutto quando la tua pelle è nera, e devi fare i conti con dei fascisti esaltati e per giunta ubriachi.
Passando attraverso grottesche peripezie come questa, Azuz realizzò che non poteva separarsi dal suo revolver, l’unico familiare di cui poteva vantarsi e fidarsi. Le voci ricominciarono a farsi sentire ma non le scacciò come fece un tempo, riuscendo così a conviverci come se si trattassero d’antiche amicizie dell’infanzia. Azuz ha infine concluso il suo pellegrinaggio in Sardegna, accompagnato da un pastore del mio paese incontrato per caso nelle campagne della Toscana. “Vieni a pascolare il mio gregge”, gli propose l’uomo, “ormai sono troppo vecchio per farlo. Ti pagherò bene, vedrai, non te ne pentirai…”
Passando attraverso grottesche peripezie come questa, Azuz realizzò che non poteva separarsi dal suo revolver, l’unico familiare di cui poteva vantarsi e fidarsi. Le voci ricominciarono a farsi sentire ma non le scacciò come fece un tempo, riuscendo così a conviverci come se si trattassero d’antiche amicizie dell’infanzia. Azuz ha infine concluso il suo pellegrinaggio in Sardegna, accompagnato da un pastore del mio paese incontrato per caso nelle campagne della Toscana. “Vieni a pascolare il mio gregge”, gli propose l’uomo, “ormai sono troppo vecchio per farlo. Ti pagherò bene, vedrai, non te ne pentirai…”
Ora il nostro amico passeggia tranquillamente tra i monti, ascolta il sibilo del vento, dialoga assiduamente con gli spiriti e ripensa alla sua terra in cui non può ancora ritornare. Vive nella pace e nella serenità più assoluta, ma si fa sempre accompagnare dalla potente pistola con caricatore automatico. Diversi individui, nonostante i buoni propositi, comprendono un solo linguaggio, ed è preferibile imparare a conoscere quella stessa lingua se non si vuole diventare, un giorno, pasto per i maiali.
Vincenzo M. D'Ascanio, 2010.
Vincenzo M. D'Ascanio, 2010.